sabato 17 maggio 2008

Editoriale della rivista di Espai en Blanc nº 3-4: La società terapeutica

Come nostra abitudine, ormai, ospitiamo un testo tradotto dallo spagnolo (in calce il testo in lingua originale) proveniente dalla Catalogna, si tratta dell'editoriale del numero 3-4 della rivista edita dal gruppo Espai en Blanc

I vendicatori delle umane sofferenze



16.02.08, Espai en Blanc

Nel primo numero della rivista di Espai in Blanc incominciammo ad affrontare la relazione esistente tra vita e politica. Non intendevamo tanto difendere un certo vitalismo - d'altra parte difficile da evitare quando non ci sono individui storici né orizzonti emancipatori - ma di iniziare ad esplorare la relazione stessa che lega vita e politica, o detto altrimenti, la molteplicità di sensi racchiusi nella copula "e" che vincola entrambi i termini.

Si può affermare che la caratteristica che definisce l'epoca globale nella quale stiamo consiste nel fatto che realtà e capitalismo si sono identificati. Questa identificazione si è prodotta dopo una Grande Trasformazione lunga più di trenta anni che ha visto sparire quello che anticamente si chiamava "la questione sociale". Non è necessario insistere, ancora, che la sconfitta politica del Movimento Operaio sta alla base di queste considerazioni. La coincidenza tra capitalismo e realtà significa anzitutto che non c'è oramai fuori. Più esattamente che non c'è fuori del capitale. Ancora all'interno del marxismo classico, sebbene rinnovato, si è voluto catturare questa trasformazione come una sussunzione della società nel capitale, e contemporaneamente, come una generalizzazione del lavoro a tutti gli ambiti della società. Qui è dove mette la vita mentre problematica. Sussunzione implicherebbe che la vita (soggettività, affetti...) è messa direttamente a lavorare per il capitale. Questa analisi benché certo, sia insufficiente perché ignora quella molteplicità di sensi pertinenti alla relazione tra vita e politica, per questo ci spinge verso una posizione politica sbagliata.

Coerenti con questo progetto crediamo di dover passare da un paradigma dello sfruttamento ad un paradigma della mobilitazione globale. Evidentemente, questo transito non implica il fine dello sfruttamento capitalista bensì, al contrario, la sua massima esacerbazione. Da questa nuova prospettiva, non è che la vita sia messa a lavorare, è che la vita stessa smette di essere un dato oggettivo per trasformarsi in qualcosa di soggettivo: vivere è "lavorare" la nostra propria vita, o detto più chiaramente, vivere è gestire la nostra propria vita. Si è detto molte volte che il lavoro fosse la migliore terapia per controllare i malati mentali, in particolare i più violenti. "Prendete un furioso, introducetelo in una cella, spezzerà tutti gli ostacoli e si abbandonerà alle più cieche cariche di furore. Ora contemplatelo trasportare terra: spinge la carriola con un'attività straripante, e ritorna con la stessa petulanza a cercare un nuovo fagotto che deve trasportare ancora: è vero che grida, che giura mentre conduce la carriola… Ma la sua esaltazione delirante non fa che attivare la sua energia muscolare che si incanala a beneficio del proprio lavoro. (S. Pinel: Traité complet du régime donataire dia aliénés. Parigi, 1836) Bene, oggi bisognerebbe affermare che la vita stessa è quella terapia. Una terapia di controllo e di dominio. Benché possa sembrare inusitato, l'effetto repressivo che giocava l'obbligo del lavoro si riformula come obbligo di avere una vita. Ora si capisce perché la tesi centrale alla quale arriviamo - e si tratta semplicemente di un corollario della definizione che stabilivamo dell'epoca globale - può riassumersi così: oggi la vita è il campo di battaglia. La vita, in questo senso, non consiste in altro se non in un'attività privata la cui finalità è produrre una vita privata. Non siamo più che vite, privatizzate, mobilitate per riprodurre questa realtà fatta una col capitalismo. Questa mobilitazione globale prenota un destino differente ad ogni vita. Ad alcune persone le trasforma in vite ipotecate, ad altre in residuali, ad altre in intraprendenti di se stesse. Il risultato è, tuttavia, comune per quanto in tutte lo stato che prevale è quello del "essere solo". Perché nella società-rete, in definitiva, essere connesso è paradossalmente essere solo. Il malessere sociale sarà il nome di questo non-potere, di quell'impossibilità di esprimere una resistenza comune e liberatoria di fronte alle nuove condizioni della realtà. Il malessere sociale non è altro che il blocco della strada verso una soggettivizzazione politica capace di affrontare il mondo.

Ma affinché la mobilitazione funzioni questo malessere sociale deve incanalarsi, e quell'arginatura deve comportare, in ultima istanza, la sua inutilizzazione politica. Per ciò ogni dimensione collettiva del malessere deve essere cancellata: il malessere sociale sarà ricondotto ad una questione personale. Così ogni vita si adatterà ed integrerà nella propria mobilitazione. Il volere vivere dell'uomo anonimo funziona allora dentro la mobilitazione, è il suo principale propulsore. Quindi, vivere finisce per essere sinonimo di mobilitazione. È per questo motivo che il potere deve essere fondamentalmente un potere terapeutico diretto a mantenere una società malata. Il potere terapeutico non passa tanto per l'internamento ma attraverso l'intervento su tutta la società. Il suo intervento non perseguirà il curare, bensì il prevenire, il valutare rischi, creare attitudini, e soprattutto, trattare ogni sposo come questione. Questo è il segreto del modo terapeutico di esercizio del potere.

È importante descrivere sociologicamente questo malessere, e così rendere conto delle multiple malattie del vuoto (stati tremendi, depressioni…) che gestisce il potere terapeutico. Ma, e più importante, quello che ci interessa in realtà, è politicizzare questo malessere sociale. Di qui che la riflessione sulla società terapeutica debba essere accompagnata ad un'analisi dello statuto della cosa politica attuale. Che la vita sia oggi il campo, politico, di battaglia ci obbliga a pensare nuovamente cosa significhi politicizzarsi, poiché la politicizzazione sembra essere essenzialmente un processo di autotrasformazione personale. Se ogni politicizzazione deve partire dalla propria vita, e bisognerà vedere ciò che questo comporta, avviene che una politica che si ponga come obiettivo la politicizzazione dell'esistenza adotti, paradossalmente, la forma di una terapia. Questo risultato ha molto di autocontraddittorio ed è inaccettabile, per via del fatto che la "forma" terapia implichi l'esistenza di un esperto, e in definitiva, di una relazione gerarchica. Ma non è facile uscire dal pantano. Se forzosamente siamo obbligati ad avvicinare la nostra politica - la politica che spinge la politicizzazione dell'esistenza - ad una terapia, allora si deve pensare una politica-terapia che si liberi della terapia stessa. Non sappiamo quale la strada è, ma siamo convinti della necessità di mirare più lontano dell'orizzonte terapeutico. Il Collettivo Socialista di Pazienti, SPK, asserì coraggiosamente che c'era bisogno di "fare della malattia, un arma." Questo può essere un buon lemma per pensare l'interruzione della mobilitazione globale, ed affrontare così quella via che decostruisce dal di dentro la terapia di ciascuno.

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El malestar social en una sociedad terapéutica

Prólogo de la revista de Espai en Blanc nº 3-4: La sociedad terapéutica

Publicado el 16.02.08 , por Espai en Blanc

En el primer número de la revista de Espai en Blanc empezamos a abordar la relación que existe entre vida y política. No se trataba tanto de defender un cierto vitalismo – por otro lado difícil de eludir cuando no hay sujetos históricos ni horizontes emancipatorios – como de empezar a explorar la relación misma que liga vida y política, o dicho de otra manera, la multiplicidad de sentidos que se encierran en la cópula "y" que vincula ambos términos.

Se puede afirmar que la característica definitoria de la época global en la que estamos consiste en que realidad y capitalismo se han identificado. Esta identificación se produce después de una Gran Transformación de más de treinta años que ha visto desaparecer lo que antiguamente se llamaba "la cuestión social". No hace falta insistir, una vez más, que la derrota política del Movimiento Obrero está en la base de estas consideraciones. La coincidencia entre capitalismo y realidad significa antes que nada, que ya no hay afuera. Más exactamente, que ya no hay afuera del capital. Todavía dentro del marxismo clásico si bien renovado se ha querido aprehender esta transformación como una subsunción de la sociedad en el capital, y a la vez, como una generalización del trabajo a todos los ámbitos de la sociedad. Aquí es donde entra la vida en tanto que problemática. Subsunción implicaría que la vida (subjetividad, afectos…) es puesta directamente a trabajar para el capital. Este análisis aunque cierto, es insuficiente porque desconoce justamente esa multiplicidad de sentidos que contiene la relación entre vida y política, por lo que nos acaba empujando hacia una posición política equivocada.

Consecuentes con este planteamiento creemos que tendríamos que pasar de un paradigma de la explotación a un paradigma de la movilización global. Evidentemente, este tránsito no implica el fin de la explotación capitalista sino justamente, al contrario, su máxima exacerbación. Desde esta nueva perspectiva, no es que la vida sea puesta a trabajar, es que la vida misma deja de ser un dato objetivo para convertirse en algo subjetivo: vivir es "trabajar" nuestra propia vida, o dicho más claramente, vivir es gestionar nuestra propia vida. Se ha dicho muchas veces que el trabajo era la mejor terapia para tener controlados a los enfermos mentales, especialmente, a los más violentos. "Coged a un furioso, introducidlo en una celda, destrozará todos los obstáculos y se abandonará a las más ciegas embestidas de furor. Ahora contempladlo acarreando tierra: empuja la carretilla con una actividad desbordante, y regresa con la misma petulancia a buscar un nuevo fardo que debe igualmente acarrear: es verdad que grita, que jura a la vez que conduce la carretilla… Pero su exaltación delirante no hace más que activar su energía muscular que se encauza en beneficio del propio trabajo." S. Pinel: Traité complet du régime donataire des aliénés. Paris 1836. Pues bien, hoy habría que afirmar que la vida misma es esa terapia. Una terapia de control y de dominio. Aunque pueda parecer inusitado, el efecto represivo que jugaba la obligación del trabajo se reformula como obligación de tener una vida. Ahora se entiende porque la tesis central a la que llegamos – y se trata simplemente de un corolario de la definición que establecíamos de la época global – puede resumirse así: hoy la vida es el campo de batalla. La vida, en este sentido, no consiste más que en una actividad privada cuya finalidad es producir una vida privada. No somos más que vidas (privatizadas) movilizadas para reproducir esta realidad hecha una con el capitalismo. Esta movilización global reserva un destino diferente a cada vida. A unas las convierte en vidas hipotecadas, a otras en residuales, a otras en emprendedores de sí mismos. El resultado es, sin embargo, común por cuanto en todas ellas el estado que prima es el del "estar solo". Porque en la sociedad-red, en definitiva, estar conectado paradójicamente es estar solo. El malestar social será el nombre de este no-poder, de esa imposibilidad de expresar una resistencia común y liberadora frente a las nuevas condiciones de la realidad. El malestar social no es más que el bloqueo del camino hacia una subjetivización política capaz de enfrentarse al mundo.

Pero para que la movilización funcione este malestar social tiene que encauzarse, y ese encauzamiento debe comportar, en última instancia, su inutilización política. Para ello toda dimensión colectiva del malestar tiene que ser borrada: el malestar social será reconducido a una cuestión personal. Así cada vida se adapta e integra en la propia movilización. El querer vivir del hombre anónimo funciona entonces dentro de la movilización, y como su principal impulsor. De esta manera, vivir acaba siendo sinónimo de movilización. Es por eso que el poder tiene que ser fundamentalmente un poder terapéutico dirigido a mantener funcionando una sociedad enferma. El poder terapéutico no pasa tanto por el internamiento como por la intervención sobre toda la sociedad. Su intervención no perseguirá curar, sino prevenir, evaluar riesgos, chequear aptitudes, y sobre todo, tratar cada caso como particular. Este es el secreto del modo terapéutico de ejercicio del poder.

Es importante describir sociológicamente este malestar, y así dar cuenta de las múltiples enfermedades del vacío (estados de pánico, depresiones…) que, surgidas por doquier, gestiona el poder terapéutico. Pero lo verdaderamente importante, y es lo que en verdad nos interesa, es politizar ese malestar social. De aquí que la reflexión sobre la sociedad terapéutica tenga que ir acompañada de un análisis del estatuto de lo político en la actualidad. Que la vida es actualmente el campo (político) de batalla nos obliga a pensar nuevamente qué significa politizarse, ya que la politización parece ser esencialmente un proceso de autotransformación personal. Si toda politización tiene que arrancar de la propia vida, y habrá que ver lo que eso comporta, ocurre que una política que se ponga como objetivo la politización de la existencia adopta, paradójicamente, la forma de una terapia. Este resultado tiene mucho de autocontradictorio y es inaceptable, por cuanto la "forma" terapia implica la existencia de un experto, y en definitiva, una relación jerárquica. Pero no es fácil salir del atolladero. Si forzosamente estamos obligados a acercar nuestra política – la política que impulsa la politización de la existencia – a una terapia, entonces hay que pensar una política-terapia que se libere de la terapia misma. No sabemos cuál es el camino, pero estamos convencidos de la necesidad de apuntar más lejos del horizonte terapéutico. El Colectivo Socialista de Pacientes (SPK) defendió valientemente que había que "hacer de la enfermedad, un arma." Este puede ser un buen lema para pensar la interrupción de la movilización global, y encarar así esa vía que desconstruye desde dentro mismo la propia terapia.