lunedì 10 dicembre 2007

Voler Vivere, Voler Parlare


Dal sito della casa editrice le nubi edizioni è possibile scaricare gratuitamente il volume: Voler Vivere, Voler Parlare, di Wenceslao Galan (Espai en Blanc), in formato elettronico (.pdf), compresso (.zip).
L'e-book è il primo titolo della collana Sans Papiers della casa editrice, che raccoglie volumi no copyright, gratuiti.

mercoledì 28 novembre 2007

Frammenti di Scrittura, 2


Il 14 novembre 2007 all'interno della rassegna "Scatola Bianca", presso il Cinebistrò OFF!CINE di Roma, si è tenuto un reading di frammenti dagli scritti di Andrea Appetito. I brani sono stati letti dall'autore, l'improvvisazione musicale è di Roberto Fega.

lunedì 26 novembre 2007

Frammenti di scrittura



Il 7 novembre 2007 all'interno della rassegna "Scatola Bianca", presso il Cinebistrò OFF!CINE di Roma, si è tenuto un reading di frammenti dagli scritti di Marco Caponera. I brani sono stati letti da Antonio Sinisi, l'improvvisazione musicale è di Maath.

sabato 17 novembre 2007

Santiago Lopez Petit in visita a Roma

Abbiamo il piacere di segnalare che l'autore spagnolo, membro dei gruppi catalani Espai En Blanc e Dinero Gratis, sarà presto ospite de le nubi edizioni, per presentare il suo ultimo libro uscito da poco in Italia: "Amare e Pensare. L'odio del voler vivere"; pubblichiamo, per chi fosse interessato a partecipare, le date e i luoghi dove si svolgeranno gli eventi che lo vedono ospite.

- giovedì 22 novembre 2007, alle ore 15.30 presso La facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di "Tor Vergata", nell'aula delle riunioni del Dipartimento di Ricerche Filsofiche, a Roma, in via Columbia, 1 edificio B, primo piano.

- sabato 24 novembre 2007, alle ore 18.30, presso il Cinebistrò OFFICINE, in via del Pigneto, 215 a Roma. Successivamente alle ore 22 proiezione del film "El Taxista Ful".

Entrambi gli incontri sono ad ingresso libero.

lunedì 8 ottobre 2007

Cena di finanziamento per il settimanale anarchico Umanità Nova...



... lunedì 29 ottobre 2007 presso Mucca Pazza ristorante vegetariano di Marino (Via Giardino Vecchio, 3 - 00047 Marino (RM) tel. 06 9367484).

Il settimanale anarchico Umanità Nova, fondato nel 1920 tra gli altri da Errico Malatesta, è in forte crisi economica, quando si è pensato per la prima volta di realizzare un'iniziativa di finanziamento il disavanzo della testata era di 14000 euro circa, ora sono oltre 15000 e il 29 chissà quanti.

"Da più di ottant'anni, il settimanale anarchico Umanità Nova rappresenta il tentativo di fornire un'informazione puntuale sulle analisi, l'impegno e le lotte degli anarchici in Italia e nel mondo dando ampio spazio a tutte le lotte di libertà dei movimenti sociali a livello locale e globale. Il nostro settimanale si è sempre basato sull'autofinanziamento, sul sostegno libero e volontario di chi ha animato le sue pagine, e sulla solidarietà di quanti vi hanno trovato un mezzo coerente con gli obiettivi e le pratiche di emancipazione e di trasformazione rivoluzionaria della società. Oggi Umanità Nova si trova in una difficilissima situazione economica e c'è bisogno di uno sforzo da parte dei lettori, degli abbonati, dei simpatizzanti, dei militanti e di tutti coloro i quali non vogliono rinunciare a un'informazione dal basso, libera e non imbavagliata per far sì che le pagine di Umanità Nova continuino a raccontare la società di oggi e l'impegno di quanti ogni giorno si battono per trasformarla."

Alle 18.30 proiezione del film: "Non son l'un per cento. Anarchici a Carrara" regia di Antonio Morabito, ingresso libero.

Alle 20.00 breve presentazione della rivista, sarà possibile conoscerla, acquistarla e sottoscrivere abbonamenti.

Ore 20.30 inizio cena.

Prezzo politico di finanziamento: 10 euro (gradita prenotazione, fateci sapere se venite, in quanti venite, ecc...)

Lunedì 29 ottobre 2007, dalle 18.30 in poi presso: "Mucca Pazza" di Marino (Via Giardino Vecchio
, 3 Marino (RM) tel. 06 9367484, a due passi dal centro sociale "I po'").

sabato 6 ottobre 2007

Brani Dinero Gratis

A questo link è possbile ascoltare il brano Dinero Gratis, che dà il nome al movimento catalano che raccoglie diverse sigle tra cui Espai en blanc.
A questo link invece corrisponde il brano Marca Barcelona che fa parte della colonna sonora del film El Taxista ful.
Entrambi sono in formato ".ogg" quindi non tutti i software sono in grado di riprodurli correttamente.
Saluti,

domenica 30 settembre 2007

Materiali su Espai en blanc

A questo link: http://www.edicionessimbioticas.info/article.php3?id_article=901 è possibile scaricare un file pdf dal titolo : La tierra de nadie. En la red de los nombres, che raccoglie materiali su un ciclo di incontri realizzati a Barcellona dal gruppo catalano Espai en blanc.
Naturalmente il testo è in lingua spagnola.

Saluti,

Intervista a Dinero Gratis

Barcellona, 26 marzo 2007

Intervista realizzata dai vendicatori delle umane sofferenze a Wenceslao Galan e Pepe Rovira (Dinero Gratis).


(i vendicatori): Che significa politicizzare la vita?

(Wences): La realtà ha rinchiuso ciascuno di noi nei limiti della propria vita. Ci si deve occupare ogni giorno di movimentarla, aggiornarla, mantenersi in contatto con il mondo. È un ricatto massacrante, che assorbe e limita tutto quello che possiamo. Lo chiamiamo “stato di mobilità totale” ed è così che viviamo.

Politicizzare la vita significa sfidare insieme questo ricatto, intrattenere con il mondo e con la vita una relazione che rompa questo limite. Si tratta di sperimentare ciò che possiamo – ciò di cui è capace il mondo, di cui siamo capaci con la nostra vita- senza che l’impotenza o la speranza soffochino in partenza questo evento. Lì dove si trovano vite disposte a condividere questa esperienza, a metterla in pratica, a elaborare che significa “noi possiamo”, lì avviene la politicizzazione.

Politicizzare la vita non è facile. Dobbiamo gestire le paure, sopportare le tensioni –sociali, psichiche, vitali - che quest’incontro provoca, proprio perché non sappiamo quello che possiamo, perché non lo possiamo sapere. Però, messi di fronte alla realtà, dobbiamo decidere se accettiamo come limite che mi vada tutto bene con la mia vita e con le mie cose, o se voler vivere ci spinge insieme verso qualcos’altro, ci richiede altro, ci impone, alla fine, di politicizzare la vita.


(V): Leggendo “vita e politica” sembra che un altro mondo non sia possibile, e che non ci resta altro da fare se non “far buchi nella realtà”... ma che significa “fare buchi nella realtà”?

(W): Le vite politicizzate sono vite che s’interrompono da sole, che si disinteressano di se stesse, che sospendono il principio di mobilità totale che condiziona l’accesso al mondo. Proprio per questo irrompono nella realtà come un buco, uno spazio che interferisce nella sua logica, che erode il senso comune capitalista imposto ad ognuno di noi.

L’esperienza di ciò che noi possiamo non spera niente, non è un processo diretto verso delle mete rispetto alle quali possa essere giudicato. Al contrario, annullare il discorso della speranza è ciò che ci permette di aprire questo spazio e sostenerci in lui. In questo senso ipotizziamo che la realtà non ha un fuori, non ci sono uscite, o segnali che conducano fuori, verso la possibilità di un altro mondo. Una cosa del genere non possiamo concepirla né ce la immaginiamo. Questo è quello che c’è: il capitalismo è tutt’uno con la realtà.

Pertanto, il noi che si condivide politicizzando la vita non è un soggetto che si rivolge alla società con un progetto alternativo: democraticizzare la democrazia, socialismo nel XXI secolo ecc. Tutto questo va bene, ma si colloca su un altro piano.

Far buchi nella realtà dunque significa sostenerci nel vuoto, lottare nel vuoto, strappare a noi stessi quest’evento, perché è lì che ci spinge il nostro voler vivere. Non possiamo cambiare il mondo però la nostra relazione con il mondo sì. Soltanto che per fare ciò bisogna vincere di volta in volta tutto quello che dentro una persona spinge, dall’altro lato, a scendere a patti con la realtà, a cedere al ricatto, a tappare il buco. Voler vivere è ambiguo: ti spinge e ti frena, ti dà le forze per condividere l’esperienza del noi però t’induce a mettere in salvo la tua vita. Ecco perché aprire un buco vuol dire resistere al senso comune. Ma ricordiamoci della massima: resistere senza sperare niente. Qui non c’è una politica di risultati.


(V): Se la vita “non può essere che sia solo questo”, e se un’altra cosa non è possibile, che cosa può essere allora?

(W): Rispondere a questo ci costringe a parlare “filosoficamente”, vediamo se possiamo farlo con chiarezza. Anzitutto questo implica uno spostamento categoriale decisivo. Come ha esposto brillantemente una compagna di Espai en Blanc, il discorso sul possibile è una prigione. Viviamo in un mondo dove tutto è o è diventato possibile, in una realtà senza limiti, tanto che qualsiasi possibilità non fa altro che confermare e conformare quello che c’è, il finale senza fine nel quale ci siamo incastrati.
E quando parliamo di possibilità ci riferiamo tanto alle potenzialità di un soggetto –quello che potremmo essere, quello che la società darebbe di sè – come alla virtualità di un altro mondo – quello che potrebbe succedere - non ci serve la dialettica e nemmeno il discorso sulla differenza. La realtà stessa lo ha neutralizzato.

Quindi la politicizzazione non si effettua in relazione a quello che “può essere”, o a quello che “diventerà”, né come sviluppo di una potenza né come realizzazione di una possibilità inedita. Ma allora cos’è che la sostiene? Che tipo di forza è forza che lotta nel vuoto? È qui che si richiede la rimozione categorica e si avverte che ciò che ci conduce a politicizzare la vita, ciò che apre il buco e sostiene l’esperienza di ciò che “possiamo” è il Voler Vivere.

Non significa che il volver vivere annulli il riferimento a ciò che siamo, a ciò che può essere, insomma che non abbia un senso della possibilità. Avviene piuttosto che la sua relazione con la vita e la politica, cioè, la sua relazione con se stesso, apre un gioco proprio –un dinamismo, una struttra, un campo di categorie specifico – nel quale quel riferimento si gestisce in un altro modo. Non stiamo su ciò che può essere: ci esponiamo al voler vivere. Quello che importa non è la possibilità ma se vogliamo vivere fino al punto che proprio questo sia quello che vogliamo e che viviamo. In questo caso, ripetiamo, il possibile e l’impossibile, ciò che è e ciò che non è, non hanno più un’importanza decisiva. Sconvolge, ma questo è il gioco.


(V): Qual è la dimensione politica di quello che voi chiamate “uomo anonimo”? Qual è la dimensione politica dell’anonimato?

(W): La forza e la dimensione politica dell’anonimato è proprio questa: non cerca riconoscimento, non ha bisogno di gestire nessuna identità o differenza, non si chiede chi è. Al contrario, rifiuta espressamente questa logica. Quando andiamo per le strade con il No alla Guerra, quando ci riuniamo per cacciare un governo criminale e schifoso, quando dopo un attentato elaboriamo in qualità di “danneggiati” il significato del vivere, quando mettiamo in ridicolo i progetti istituzionali e il modello di città-marca, quando torniamo a riunirci, questa volta perché “non avremo una casa in questa cazzo di vita”, o infine, semplicemente quando ci incontriamo da qualche parte per chiarirci in che consiste il malessere sociale, in tutti questi casi stiamo agendo come uomini anonimi.

L’istanza del discorso è la prima persona plurale, secca: noi, noi che siamo qui, noi che sappiamo quello che possiamo ma proprio per questo condividiamo questa esperienza, senza lasciare, ricordiamoci, che l’impotenza e la speranza la soffochino.

Ovvio che il potere e la realtà come due bravi poliziotti - esterni ed interni - procedono alla nostra identificazione: chi siamo, pacifisti, cittadini con diritti, democratici radicali, oppositori del sistema eccentrici, ecc. Ma questo processo ci è estraneo, resta annullato in partenza, e per questo possiamo condividere questo spazio. Se ci fanno fretta possiamo rispondere che non siamo nessuno, che siamo i nessuno – qualcosa di simile ai “subalterni”: i senza voce e i senza parola – ma perfino questa definizione, nonostante sia solo al negativo, distorce la nostra esperienza. Ancora una volta, questo è buono, ha il suo contesto e la sua forza, ma si colloca da un’altra parte.

A proposito di questo concetto, l’uomo anonimo non è nemmeno la “folla” perché la folla non può usare , e non lo fa, la prima persona plurale, esporsi a se stessa come tale, sottoscrivere il suo manifesto, dire “noi siamo qui...”. Ma l’uomo anonimo lo può fare. La sua relazione con se stesso come istanza del discorso sotto quest’aspetto è analoga a quella del proletariato, vero autore del manifesto come espressione politica moderna. In entrambi i casi il motore della forza è l’anonimato. Parliamo per noi e a noi. E questo vale anche per questa intervista.


(V): Che intendete per politica notturna?

Citerò, più o meno a memoria, Mar Traful: “una politica notturna si deve fare contro la miseria di una realtà che ci soffoca di giorno in giorno; da un noi zoppicante, fatto nel cammino; per interrompere la grande macchina; per gli interminabili sentieri del suo labirinto; su parole e azioni che si inventano; a seconda della nostra capacità di sperimentare, pensare, vivere, resistere, godere... sapendo che oggi siamo pochi e domani forse di meno. O di più.


(V): È possibile condurre una “vita politica” nel momento in cui, come voi scrivete, “le esperienze (lavorative, affettive, di qualsiasi vincolo sociale) si privatizzano e particolarizzano?

Anche qui dobbiamo osservare lo spostamento di una categoria. La privatizzazione dell’esperienza è, in effetti, il punto di partenza: la mia vita, quello che mi succede, i miei. Ognuno facendosi carico del mondo, delle relazioni, di ciò che può essere o non essere. Come risulta mostruoso tutto questo! Che solitudine! Non è strano che la depressione sia la nostra epidemia.

La privatizzazione induce a cercare, come reazione, quello che alla fine non è altro che il suo rovescio: il pubblico, la “pubblicità”. E da qui la cavalleria di Habermas, Hanna Arendt, la polis, ecc. La questione quindi è avere una vita pubblica, farsi cittadino, rispettare le differenze, procurare forme di consenso... tra l’isolarti come un riccio o l’affondare in questa paludosa retorica meglio la prima. Almeno ti tieni la tua rabbia e questo ti mantiene vivo, quando non ti deprime.

Però ancora una volta la vita che si politicizza, scardina questa dicotomia. Noi non è un’istanza pubblica né privata. Condividendo l’esperienza del possiamo, affermando così il nostro voler vivere, apriamo un altro tipo di vincolo, un altro campo di categorie.

Non si tratta di io “e” gli altri, o di noi “e” loro. L’importante non è la congiunzione né il modo in cui questa si elabori: razzionalizzandola mediante il dialogo, assumendola dialetticamente, ecc.

Chiaro che la mia vita e ciò che è mio stanno là, non li nascondo né li sublimo, come nemmeno riduco la presenza dell’altro come tale, il rispetto che mi stimola perché è un altro, le emozioni che mi provoca la sua presenza. Ma la cosa decisiva è lo spazio che condividiamo come “noi”, senza identità aggiunta, senza riconoscimenti, senza privacy né pubblicità.

Quello che in me vuole vivere già è qualcosa di condiviso, qualcosa che vuole e vive se stesso in prima persona plurale, e proprio per questo lo condivido, lo condividiamo in questo modo. Sfumando la parola potremmo gestirlo come una forma d’intimità –esattamente la sua forma politica - o d’interiorità comune, situata per così dire nella pelle.

Dalla pelle abbiamo risposto a queste domande. Non per sottometterci al giudizio pubblico o privato di chi ci legga, ma per chiarirci, che cos’è tutto questo in cui ci troviamo e come possiamo farlo funzionare – perché non sappiamo quello che possiamo, e non possiamo saperlo.


(V): Da cosa nasce il “taxista ful”?

(Pepe): Da “disconformità”, malessere, ricerche e incontri. Potremmo dire che nasce dalla casualità, intendendo che la casualità è una necessità che si incontra con una possibilità. Degli okupas, un collettivo politico, che agiscono e riflettono su come fare politica oggi, incontrano qualcuno (il regista) pazzo come il tassista, anticonformista come gli okupas, perso nella notte come il collettivo, come tutti, però con tanta voglia di cercare, di trovarsi, di sperimentare como tutti loro. Da qui credo nasca il taxista ful.


(V): Che cosa lo rende diverso dal cinema politico tradizionale?

(P): Quello che penso è che proviene dalla pelle. Non abbiamo fatto un film, è qualcosa che ci è successo, non mi riferisco solo al realismo di quello che avviene nel film.

A me piace chiamarlo “cinema realtà” ma non saprei se è il termine giusto né se sia diverso dal cinema politico tradizionale.


(V): Il tassista ruba un taxi per lavorare, e si trasforma in un ladro e in un pazzo... disperato, incontra un gruppo di ragazzi che occupano spazi nella città per “disoccupare l’ordine” e “fare buchi nella realtà”... considerando che fare buchi in questa realtà è come svuotare il mare con un cucchiaio, chi è più pazzo, il tassista o gli okupas?

(P): È più pazzo il tassista perché la sua pazzia parte dal senso comune , e soprattutto è più amareggiato, più triste e più solo. Se non avesse incontrato chi vuole svuotare il mare con un cucchiaio, forse avrebbe concluso i suoi giorni in un qualsiasi angolo sperduto della città.


(V): Perché avete scelto il cinema per raccontarvi e raccontare la precarietà?

(P): Noi non abbiamo scelto, abbiamo approfittato dell’opportunità, abbiamo accettato la sfida, perché non dire attraverso il cinema quello che già dicevamo in riviste e volantini? Adesso siamo contenti di averlo fatto.


Grazie a Diana Cortese per la traduzione

sabato 29 settembre 2007

Materiali su Dinero Gratis

13-14 Marzo 2007
Officine via del Pigneto, 215 Roma

Care/Cari
anticipiamo con queste tre brevi traduzioni l’incontro di aprile (due giorni!) con Dinero Gratis di Barcelona (un nome di nomi che comprende Oficina 2004, Mar Traful, Espai en Blanc…) di cui presenteremo il film El taxista ful (per la prima volta nel bel paese) e il primo numero della rivista Vida y Politica (teorie e pratiche per mani nervose e cervelli raffinatissimi ) e ovviamente tutto l’imprevedibile di due giorni che non si sa quando cominciano né quando finiscono…

Ad aprile!


i vendicatori/le vendicatrici delle umane sofferenze


la vita è oggi il campo di battaglia (Espai en Blanc)


... per noi la chiave delle forme di dominio nelle nostre società attuali è la neutralizzazione di ciò che è politico. Nel mondo della precarietà ciascuno sembra giocarsi da solo la propria relazione con il mondo. Se la conserva, il suo successo è suo contro tutti gli altri. Se la perde, il suo fallimento è personale. Paura, senso di colpa e depressione sono i sintomi più evidenti del malessere/malestar...

Di fronte a questo malessere (preferiamo questo termine a quello di sofferenza), abbiamo posto la domanda: come si costruisce oggi una vita politica? Che significa nelle nostre società politicizzarsi o politicizzare un conflitto?


Per una politica notturna (Mar Traful)

Una politica notturna deve farsi

CONTRO la comoda e passiva contemplazione della miseria quotidiana che impregna e soffoca.

A PARTIRE DA un noi zoppicante che si fa strada andando e si nutre della mala sorte e dell’improvvisazione.

PER fare lo sgambetto e cortocircuitare la grande macchina.

ATTRAVERSO gli angusti e interminabili sentieri del gran labirinto, inventando parole e azioni.

SECONDO la nostra capacità di sperimentare, pensare, vivere, resistere e godere… sapendo che oggi siamo pochi e domani forse anche meno.


Alcuni dei suoi principi sono

  1. Il senso comune di due mali sceglie il male minore. Noi ci rifiutiamo di scegliere.

  2. Quando la vita diventa un mezzo per vivere, la vita muore.

  3. Cercare le radici e una maniera sotterranea di perdersi tra i rami.

  4. Quelli che si sacrificano per gli altri finiscono sacrificandoli.

  5. Bisogna liberarsi dal pensiero che fare debba servire per forza a qualcosa.

  6. Proprio perchè sappiamo che possedere è perdere, apriamo spazi di vita che non possono essere chiusi.

  7. Perché non esiste un altro linguaggio, siamo un balbettio nel linguaggio del potere.

  8. Il miglior suicidio è il suicidio senza morte: permette di continuare a sputare.



Alcune riflessioni molto provvisorie sulla precarietà (Espai en Blanc)


  1. La postmodernità è la nostra epoca, in lei pensiamo e (mal)viviamo. La postmodernità radicalizza le logiche e le aporie della modernità. In particolare, il soggetto diventa ingranaggio del sistema, funzionale all’ordine. Ma se la modernità era una mediazione che non riusciva a mediare se stessa, la postmodernità gira ancora di più nel vuoto, senza alcuna capacità di autogiustificarsi.

  2. Nella postmodernità la realtà coincide col capitalismo. Questo significa che tutte le categorie spaziali della modernità (dentro/fuori, pace/guerra, ordine/disordine…) sono saltate in aria. Siamo di fronte a un continuum indiscernibile nel quale si mescolano interiorità ed esteriorità, guerra e pace, ordine e disordine. Non esiste la congiuntura. La congiuntura dev’essere strappata alla realtà stessa. La nostra scommessa è che la lotta che vuol vincere la precarietà può farlo.

  3. La categoria che permette di spiegare tutti i fenomeni che si producono nella postmodernità è quella della mobilitazione (movilizacion). Tutti quanti e ognuno di noi siamo mobilitati. Certamente lo sfruttamento capitalista è parte di questa mobilitazione, ma la mobilitazione proprio perché è una “politica della relazione” significa molto di più. La nostra propria esistenza è questa mobilitazione della vita. Ci mobilitiamo per (ri)produrre questa realtà ovvia che ci frana addosso, quando lavoriamo, quando non lavoriamo, quando cerchiamo noi stessi, quando costruiamo progetti… In questo modo oggi la politica incontra la vita.

  4. Prendere il concetto di biopotere per descrivere questo ingresso della vita nella politica, come un “mettere al lavoro le nostre vite” è insufficiente. Così come viene utilizzato il concetto di biopotere tutte le proposte rimangono dentro la critica dell’economia politica. Il biopotere è un’estrapolazione dallo sfruttamento capitalistico che ha necessariamente due conseguenze: 1) Non si esce dalla centralità del lavoro. 2) Le relazioni di potere, in ultima istanza, si deducono dalle relazioni di produzione. Per questo la politica che si ricava da queste analisi non implica nessun cambio innovatore che corrisponda al nostro tempo. Semplicemente si sostituiscono alcune denominazioni con altre. Per esempio, invece di classe operaia si parla di moltitudine, ma non si sottopone affatto a critica la stessa nozione di soggetto politico e l’idea di politica che questa determina.

  5. La mobilitazione globale della/e vita/e crea, come dicevamo, una realtà nella quale si confondono guerra e pace, ordine e disordine… questa nuova territorialità ha simultaneamente la forma di spazio di frontiera e di supermercato. Nello spazio di frontiera il limite è diventato virtuale. Ci sono infinite frontiere e al tempo stesso nessuna. Uno spazio di controllo assoluto nel quale ciò che sei viene determinato dalle frontiere che ti è permesso di superare. Spazio di frontiera che è anche supermercato dove scegliere liberamente. Sei la marca che puoi comprare. La mobilitazione globale produce un territorio apparentemente pacificato nel quale la catastrofe è immanente/imminente.

  6. Le unità di mobilitazione di questa mobilitazione globale sono gli individui. Gli individui, ovvero, ognuno di noi in quanto centro di relazioni. Individuo è colui che pone “io vivo” come centro che articola le diverse identità contingenti: lavoratore, consumatore, cittadino… La novità che comporta la mobilitazione globale sta nel fatto che ti lega quando ti abbandona e, al contrario, ti abbandona quando ti lega. L’“infragilimento” paradossale inerente a questa politica della relazione costituisce l’essere precario.

  7. La mobilitazione globale produce un’individuazione che non è normativa, benché evidentemente la normalizzazione continua a funzionare come una specie di infrapenalità (infrapenalidad). La normalizzazione produceva individui normalizzati ma non isolati, dato che consisteva nell’autoriflessione di un gruppo in relazione a una norma. In cambio, l’individuazione effetto della mobilitazione globalizzatrice produce individui singolari nel loro radicale isolamento. Precarietà significa star solo di fronte alla realtà.

  8. Per questa ragione la precarietà non è qualcosa che ci succede e che può smettere di succederci. La precarietà non è qualcosa di accidentale ma piuttosto un carattere veramente essenziale di ciò che in questa società possiamo essere. La precarietà rende fragile il nostro stesso voler vivere (querer vivir), e nella misura che lo fa, ci imprigiona. In altre parole: al di là della dualità inclusione/esclusione che la mobilitazione impone esiste un infragilimento del voler vivere prodotto dalla paura. La società postmoderna è una società della paura e della speranza. Le due modalità di controllo sul voler vivere.

  9. Se la questione della precarietà non è tanto essere soggetti alla esclusione/inclusione, come questo infragilimento che in entrambi i casi si produce, e che ci congela la stessa voglia di vivere, che ci attacca nel più profondo e ci trasforma in carne da psichiatra, allora è chiaro che la propria vita si è trasformata nel campo di battaglia. Che la vita è oggi il campo di battaglia significa che la vita lotta contro la vita (l’altro) e anche contro la morte (disoccupazione). Detto in altro modo: quando la vita è il campo di battaglia il potere funziona e ci si impone come il codice “aver denaro/non-aver denaro”. Questo codice organizza la vita e, facendolo, precarizza le nostre vite. L’obiettivo dev’essere cortocircuitare questo codice. Il “denaro gratis”1 è questo tentativo.

  10. La parola d’ordine che fu valida per tanti anni, quella che univa Marx e Rimbaud, “trasformare la società e cambiare la vita”, dev’essere oggi ripensata completamente. Quando quello che è in gioco è la nostra propria esistenza, perché la mobilitazione effettua una guerra contro tutti noi, la vita non appare più come la soluzione ma diventa il problema stesso. Quando la vita è il vero campo di battaglia non è più sufficiente criticare la vita quotidiana, né pretendere di intensificare la vita. Affrontare la vita come il nostro problema presuppone guardare dritto in faccia- senza prepararsi un cammino di ritorno- ciò che è l’essere precario.

  11. Per capire come funziona l’essere precario si deve tenere in conto che, anche se la precarietà è sociale, la precarietà come tale si vive individualmente. Quest’affermazione è la chiave dato che in essa si concentra tutta la potenza, e al tempo stesso tutta la debolezza di una lotta che prende la precarietà come obiettivo da attaccare. La precarietà, attraverso la paura e la speranza, ci configura in quello che siamo, ovvero, come essere precario. Parlare di precariato come soggetto collettivo non è altro che pretendere di imporre artificialmente un orizzonte costitutivo a qualcosa che, nella sua essenza, è individuale e paradossale.

  12. Se l’essere precario ha questo carattere paradossale, sociale e al tempo stesso individuale, è evidente che le forme tradizionali di politica non servono. Con questo vogliamo dire che una politica di lotta contro la precarietà dev’essere completamente reinventata. Tra le altre cose, perché la politicizzazione non passa più per la coscienza di classe. La coscienza di classe permetteva di raggiungere l’universale dall’autoconoscenza concreta dello sfruttamento. In cambio, la politicizzazione dell’essere precario ci espone alle intemperie e ci porta a dover creare, a partire da noi stessi , l’alleanza di amici che non esiste.

  13. In fondo, una politica che voglia attaccare la precarietà dev’essere una politica del voler vivere. Ciò significa che questa politica, proprio perché guarda dritto in faccia l’essere precario come il paradosso che abbiamo descritto, dovrà chiamare a raccolta due componenti: l’odio e la trasversalità.

    1. L’odio verso la vita come prova. Dobbiamo riappropriarci dell’odio. Il precario deve odiare la sua vita, deve essere capace di segnare il confine tra ciò che vuole vivere e quello che non è disposto a vivere. Questo odio libero è la potenza di svuotamento del suo essere precario.

    2. b) La trasversalità come strategia. Questa nuova politica dev’essere completamente trasversale. Trasversalità significa che non c’è un fronte di lotta privilegiato (per esempio: il lavoro), ma che il combattimento si svolge contro la propria realtà intesa come un continuum di fronti di lotta. Evidentemente questa trasversalità suppone anche il rifiuto di occupare una determinata identità. Lottare contro la precarietà è attraversare tutti i fronti di lotta senza rifugiarsi in un’identità che, per lo più, sarebbe sempre imposta. Come i wobblies americani si organizzarono attraversando le differenti divisioni etniche, tecniche, di genere… Il precario che lotta in questo modo è capace di disoccupare l’ordine (desokupar el orden) e aprire una terra di nessuno. La/e terra/e di nessuno piantate nello spazio di frontiera sono i luoghi dove riprendersi per tornare ad attaccare il codice del potere.

  14. L’odio verso la vita e la trasversalità sono le armi che espellono la paura e la speranza. Sono loro che minano l’essere precario e ci mettono al di là dell’isolamento di ognuno. Così si annichila ciò che ci divide, e allora scopriamo che possediamo un’interiorità comune. Tutti noi che lottiamo contro la realtà possediamo un’interiorità comune. L’interiorità comune è lo spazializzazione (espaciamiento) del voler vivere.

  15. Una politica contro la precarietà che fa della vita un campo di battaglia, una politica del voler vivere dovrà sempre mantenere queste due dimensioni(personale e collettiva) permanentemente unite. Per questo bisogna ripensare tutto di nuovo. Che presuppone politicizzarsi oggi? Cos’è un’alleanza di amici? Come riempire la terra di nessuno col nostro malessere? Come fare del voler vivere una sfida? Saremo capaci di rispondere a queste domande che ci interrogano soltanto se facciamo effettivamente della vita il nostro campo di sperimentazione.


MANIFESTO DEL DENARO GRATIS

Da tempo il cielo è caduto. Da tempo la notte ci possiede e siamo notte. Vedo la luce del vicino accesa e non saprò mai chi è. La critica del lavoro è sempre stata il perno di ogni politica sovversiva. La critica si faceva sempre a partire da un punto: un’altra forma di organizzazione sociale, una vita altra... Ora il punto ci ha abbandonato. Di fatto, molti ci hanno abbandonato. Solo la speranza voleva rimanere con noi. Abbiamo dovuto ucciderla. Da allora ci sentiamo più leggeri e possiamo cominciare a volare. Un volo diretto verso un orizzonte d’acqua. E un orizzonte di fuoco. Fuoco e acqua per distruggere questo mondo. Effettivamente questo mondo merita solo di essere distrutto perché possa vivere il mio voler vivere che è il nostro voler vivere. La politica notturna non è un raggio di luce nel buio: è un serpente in agguato. Pronto a colpire perché non ha smesso neppure un momento di farlo. Colpire te per esempio. Le tue sicurezze che sono l’ossigeno del sangue che gonfia il tuo cuore. Le tue verità che sono barchette di carta che navigano nel tuo cervello sempre sul punto di naufragare. I tuoi amori che non sono altro che la fotografia ridicola di un tramonto. La politica notturna non promette niente che tu già non sappia. No, non moriremo di vita. La nostra vita è un’avventura in un lunapark. Conosciamo l’inizio e sappiamo perfettamente come andrà a finire. In questo mondo l’unica avventura è fare del nostro voler vivere una sfida. E distruggere questo mondo. Un mondo che non vale nessuna lacrima. Perché la realtà è troppo schifosa. Sotto le sue ascelle è cresciuta un’urbanizzazione infinita che getta nel mare un fiume di sudore pestilenziale. Tra le sue gambe è in atto una guerra feroce senza tregua: tutti contro tutti. Mentre dall’alto Dio se la ride e ogni tanto con la mano spinge qualcuno. Verso il basso. Lo affonda nella sua miseria quotidiana fino a soffocarlo. I cadaveri putrefatti stanno al sole pieni di mosche. Nel culo dell’inferno dove nessuno può sgranchirsi lavoriamo con luci fluorescenti. Viviamo morendo in un giorno che non ha fine. Assaggiamo la morte. Sono secoli che non sentiamo l’aria umida che agita i rami di un mandorlo in fiore. Non esiste il fuori. Solo questa realtà oscena che non nasconde niente. Siamo ombre divorate dalla paura che vagano in cerca di un amico. La paura è il messaggio. La realtà è oscena perché non smette di ingoiare denaro. Nella sua vagina introduciamo monete per comprare un po’ di tranquillità in vista del futuro. Ci costa ammettere che non c’è futuro. La realtà caca denaro e noi corriamo premurosi in cerca di briciole. Quando oseremo sputarle in faccia la sua abiezione?


L’economia è un gran casino
dove la roulette decide, minuto per minuto, il prezzo della vita
E io, ogni giorno che passa rimando la mia morte
mentre l’indice Nasdaq scende.
Anche l’ascensore scende.
Se potessi un giorno toccare il fondo!

La libertà è un carcere sull’orlo del mare.

Se tutto mi lega
se la porta che si apre non dà Fuori
se i miei sogni sono incubi senza un finale
se l’unica finestra che ho è la televisione. Come ho potuto?
Da dove ho preso la forza per pensarlo?
Denaro gratis


Il denaro è un codice: avere denaro/non avere denaro. Questa differenza fa funzionare la macchina di ripetizione chiamata realtà. Nulla sfugge a questa differenza, tutto ci riporta a lei... e così si (ri)produce l’ordine monetario, vale a dire, l’ordine. E non succede niente. Non succede mai niente. La violenza della moneta esclude e obbliga al lavoro. Il denaro gratis, in cambio, blocca questo codice e attacca la realtà. Il denaro gratis è una moneta vivente. Moneta perché è il risultato di uno scambio strano: espropriazione di merci, sviamento della logica del capitale... Vivente perché, per il modo in cui si dà, è una vittoria contro la paura e la solitudine. Come moneta vivente che è, il denaro gratis non si piega mai al codice. Per questo il denaro gratis non si chiede, si impone. Più esattamente: ci diamo denaro gratis. E possiamo farlo sempre anche se siamo prigionieri di noi stessi. Anche se non lo sappiamo spiegare molto bene. Basta volerlo. L’istante che voglio offrirti è una pietra trasparente fatta di luce che quando la lanci nel lago non fa rumore. Ma questo istante non esiste. Posso solo darti denaro gratis. Amico, prendi la mia mano. L’esperienza del denaro gratis produce danno. Quale esperienza se è vera non è dolorosa? La moneta vivente marchia il nostro corpo ma ci fa più coraggiosi. E più liberi. Vomita l’essere che siamo. Preferirei non allontanarmi. Andiamocene dove finalmente posso guardarti negli occhi. Non lasciamo dietro niente, solo quella vita nostra incapace di seguirci. La pietra ferita dal freddo non dirà la risposta. Il denaro puzza di morte e proprio perché è morto può accumularsi. Il denaro gratis ci libera dal denaro. Il cielo è caduto e s’annoda tra le mie gambe per non farmi andare. Se la realtà è impazzita dobbiamo inventare concetti deliranti. Il denaro gratis non ci appartiene: è di tutti e, al tempo stesso, di nessuno. È un grido di schifo contro il mondo. È un grido di guerra contro questo mondo. È il grido del voler vivere.

1 Il denaro gratis: Non è una rivendicazione. E’ un grido di guerra, un richiamo alla riappropriazione collettiva della ricchezza. Un grido di schifo contro la miseria della vita quotidiana.

L'abeledario

ABELEDARIO


Abel Paz è stato a Roma dal 15 al 18 novembre 2006. Con i suoi 85 anni, ha incontrato compagni anarchici, vecchi amici, lavoratori e studenti. Ci ha raccontato la sua vita da miliziano nella rivoluzione spagnola, esule in Francia e prigioniero politico più volte. Una vita, la sua, aspra e appassionata, di dissenso radicale e inguaribile ottimismo. Abel narra con generosità e semplicità, con lucidi punti fermi e punti sospensivi. Raccogliamo scampoli dei suoi discorsi, gesti e ricordi e li rappezziamo in un abbecedario, che per forza di cose non è il suo, ma un alfabeto straniero. Inevitabilmente si perde qualche lettera. Sillabiamo un ritratto con poche linee. Spezzate, aggrovigliate o tratteggianti, come la memoria.


ABBECEDARIO

Ho imparato a leggere di nascosto, seduto tra la legna del cortile di casa. Vivevo con la mia famiglia in Almeria, un paese dell’Andalusia. La mia maestra è stata la proprietaria di un alimentari del paese, dove la mamma mi mandava a fare la spesa. Una volta mi domandò se sapevo leggere. Gli risposi di no. Mi disse di trattenermi un po’ ogni volta che fossi tornato, perché lei mi avrebbe insegnato. A casa ripassavo sottovoce i suoni delle lettere, le sillabe. Finché un giorno mia madre uscì al cortile e sentì che parlavo piano. Si spaventò, pensò che c’era qualcuno con me. Quando scoprì che studiavo l’abbecedario, mi baciò emozionata. Mia madre. Mio padre lo vedevo poco, andava a lavorare nei campi.


BARRICATA

Io sono nato in una barricata. La barricata di coloro che lavorano la terra e conoscono la fame e non hanno avuto un’infanzia. A 15 anni mi ci sono addormentato sopra, sognavo una società diversa, di uomini liberi e felici. E non sono più sceso da lì. Nella mia vita non ho fatto altro che lottare: 12 anni di carcere, 26 d’esilio, 3 di sanatorio. Adesso vivo a Barcellona con una pensione minima, e sono felice.


CNT

Abel si affilia alla Confederaciòn Nacional del Trabajo, sindacato anarchico, a 15 anni. Ha iniziato a lavorare come apprendista in una fabbrica tessile. In una fotografia dell’epoca ha le mani in tasca, le spalle ampie sotto una giacca di pelle, la fronte alta, pulita. Stringe le labbra e guarda dritto negli occhi del fotografo.

Nella CNT non c’era distinzione tra i dirigenti e gli iscritti. Eravamo in due milioni, e volevamo costruire una società diversa. Non facevamo la guerra per il gusto di farla. Guerra e rivoluzione erano una stessa cosa. Per 32 mesi abbiamo messo in atto esperienze di autogestione e collettivizzazione delle terre, abbiamo dimostrato che si poteva vivere senza denaro e senza pagare l’affitto, la luce, il gas.


DURRUTI

Durruti divenne un simbolo, ma come lui c’erano tanti al fronte. E questo lui lo sapeva. Morì presto, dopo soli 4 mesi dall’inizio della rivoluzione, da semplice soldato, come si è comportato sempre. Sapeva di dover morire. Come il Che Guevara o come Emiliano Zapata, capì che la rivoluzione si esauriva e doveva morire con essa. Il suicidio era l’unica via d’uscita, l’unica vera, per eludere il potere che altrimenti si sarebbe concentrato nelle sue mani. Preferì morire all’apice delle sue forze, da rivoluzionario, che diventare dittatore.


ESILIO

Dal ’36 sono passati 70 anni, ma 70 anni con la Rivoluzione, mai senza di essa.


Esule anche nella terra d’esilio. Abitatore dei confini. Da cui sembra aver tratto la sua intransigenza rivoluzionaria, la forza incendiaria delle parole, l’ironia. Abel parte in esilio per la Francia dopo il 26 gennaio del ’39, quando Barcellona cade nelle mani dei franchisti. Ma poco dopo viene internato nei campi di concentramento francesi, come molti altri esuli antifranchisti. Ritorna in Spagna nel ’42 ed entra a far parte della guerriglia libertaria che combatte contro la dittatura. Viene arrestato nello stesso anno. E nel carcere, nuovo territorio di confine, inizia a scrivere. Saggi sulla rivoluzione, memorie, una delle più complete biografie di Durruti. Qualche manoscritto scompare nelle mani degli editori, qualche altro viene mutilato. Ma sono già vari i suoi libri pubblicati e tradotti. Liberato nel ’52 torna in Francia e ci rimane fino al ’76. Nella terra d’esilio vive suo figlio, Ariel. Dopo la morte di Franco torna a Barcellona, dove abita ancora oggi.


FILM

È un grande cultore di film. Manel, che viaggia con lui, ci racconta che a casa ha una delle cineteche più complete di Barcellona. Parla di Tierra y libertad, di Ken Loach. Durante le riprese, Ken Loach capì ciò che è stata la rivoluzione in Spagna. L’idea originaria del film era diversa, escludeva molti aspetti della rivoluzione. Ma sul set Loach vide di prima persona l’eredità che ha lasciato. Gli attori mangiavano separatamente dagli altri impiegati e collaboratori, ognuno secondo il ruolo che aveva. Ma si decise di mangiare tutti insieme, le stesse cose. E questo cambiò la rotta del film, lo fece diventare un vero canto alla rivoluzione.


GUERRA

Quella spagnola non è stata una guerra civile. I reazionari non hanno fatto un colpo di stato contro il governo, ma contro i movimenti libertari che avevano preso forza in tutta la Spagna. Si trattava, così, di una guerra dei ricchi contro i poveri, non di una guerra civile, come spesso si dice.

Noi siamo rimasti nelle retrovie a fare la rivoluzione. Ci rifiutammo di pagare gli affitti, si collettivizzarono le terre e ci riprendemmo le ferrovie che erano in mano ai francesi e le miniere affidate agli inglesi. Dopo i primi otto giorni di rivoluzione, la gente capì che doveva ritornare al lavoro. Questa è una peculiarità della rivoluzione spagnola rispetto ad altre, in cui la produzione venne riattivata dopo mesi. Si tornò al lavoro, ma senza padroni.


HIERRO, COLUMNA DE

Nella sua “Cronaca appassionata della Columna de Hierro” (Ed. italiana a cura di Mario Frisetti, Autoproduzioni Fenix, Torino 2006) Abel riporta un manifesto di questa colonna rivoluzionaria, costituita dai gruppi anarchici della regione del Levante. Queste sono le parole finali: “…con tutti i nostri uomini, con tutte le nostre energie, con tutto il nostro entusiasmo, lotteremo fino a schiacciare per sempre il vile fascismo. Ma non lottiamo, intendiamoci bene, per conservare una Repubblica né per instaurare un nuovo regime statale. Lottiamo per realizzare la Rivoluzione Sociale. […] Al fronte o nelle retrovie, là dove siete: lottate contro tutti i nemici delle vostre libertà, stroncate il fascismo. Ma impedite che con il frutto dei vostri sforzi si instauri un regime dittatoriale, che sarebbe la continuazione, con tutti i vizi e difetti, dello stato di cose che cerchiamo di far scomparire. Ora con le armi, domani con gli attrezzi da lavoro, imparate a vivere senza tiranni, a liberarvi da soli, unica strada verso la libertà”.


INCONTROLADOS

Nel ’37 gli stessi dirigenti della CNT e della FAI, che ormai occupavano cariche istituzionali, imposero la militarizzazione di tutte le colonne libertarie, sostenendo che fosse l’unica via d’uscita di fronte all’avanzata del franchismo. La rivoluzione si smarriva nelle vie istituzionali e al fronte mancavano le armi e languivano le forze. Ma gli “incontrolados” della Colonna di Ferro si sottrassero a tali direttive fino all’ultimo, fino a quando l’unica alternativa fu la dissoluzione.

Temerari e schivi, si ostinavano ad affrontare il nemico quasi a mani nude, disarmati, senza provviste. Restii a giungere a compromessi col potere. Il “testamento di un incontrolado”, che riporta Abel nel libro prima citato, è un documento sentito dello spirito che animava la lotta, ma ancor prima un testamento politico. L’autore, che si firma semplicemente come “un incontrolado della Columna de Hierro” era stato liberato dal carcere dai miliziani della colonna cui aderì successivamente.

Insieme a me uscirono molti uomini che avevano ugualmente sofferto, ugualmente segnati dai maltrattamenti subiti dalla nascita. Alcuni, non appena calcarono la strada, se ne andarono per il mondo; noi altri ci unimmo ai nostri liberatori, che ci trattarono come amici e ci amarono come fratelli. Con essi, poco a poco, abbiamo formato la Colonna di Ferro. […] E ci siamo nutriti per un certo tempo di quel che ci offrivano i contadini, e senza che nessuno ci facesse dono di un’arma, ci siamo armati con ciò che avevamo tolto ai militari insorti con la forza delle nostre braccia.

[…]

tutte le sofferenze, tutto il passato, tutti gli orrori ed i tormenti che hanno segnato il mio corpo, li gettavo al vento come se fossero di un’altra epoca, e mi abbandonavo allegramente a sogni di avventura vedendo con la febbre dell’immaginazione un mondo diverso da quello in cui ero vissuto, ma che desideravo.

[…]

E così tra pene e gioie, tra l’angoscia ed i pianti, ho passato la mia vita, vita felice in mezzo al pericolo, in confronto a quella vita torbida e miserevole della torva e misera galera”1.


L- LENZUOLA

Entravamo nei palazzi dei ricchi e prendevamo le cose necessarie per il fronte. Un giorno una compagna trovò delle lenzuola bellissime, tutte ricamate, e disse a Durruti: “ Queste me le tengo per quando tornerò a casa, quando tutto sarà finito”. E lui lei rispose: “ Non finirà mai. Quando la rivoluzione risulti vittoriosa in Spagna, andremo a farla in Francia, in Germania, in Russia… Siamo usciti di casa per non tornarci mai più”.


M- MEMORIA

Hanno sempre voluto demonizzare gli anarchici, ci hanno sempre dipinti con le corna, come dei diavoli. Ma la rivoluzione spagnola ha lasciato un’eredità profonda, nonostante abbiano voluto sotterrarne la memoria… Col tempo tutti sono cambiati, i franchisti si sono chiamati democratici… Solo noi anarchici siamo rimasti noi stessi.


N- NOME

Si chiama Diego Camacho. Questo è il nome che gli hanno dato i suoi genitori. Ma quando va via da casa a 16 anni e attraversa a piedi la Catalogna rurale, Diego si da un nuovo nome, di curiose risonanze bibliche: Abel Paz, perché dice: Io sono per la pace, non per la guerra. Ancora oggi firma i suoi scritti come Abel Paz, e gli è indifferente se lo chiamano Diego o Abel.


O- OKUPAS

Abel vive nel quartiere di Gracia, a Barcellona. Ricorda lo sciopero contro gli affitti del ’33, in cui mezzo milione di abitanti della città si rifiutarono di pagare l’affitto per 3 mesi. Racconta dell’appoggio popolare che hanno gli okupas a Barcellona, quando la polizia arriva a sgomberare. E si augura che tutti diventino Okupas. Che aprano brecce dove si può.


P- PROFESSORI

In Spagna non mi fanno parlare all’università. E non sono gli studenti, ma i professori a impedirmelo. Ripetono come pappagalli quello che gli hanno insegnato a loro volta i loro professori fascisti. Si insegna la filosofia, ad esempio… Ma la filosofia non si può insegnare. Bisogna essere filosofi. A me interessa soltanto la filosofia che insegna la vita, quella che impari vivendo.


Q- QUINDI

Con un’ultima boccata di fumo che vela lo sguardo sardonico, Abel conclude un suo discorso:

E quindi…Fate i bravi, statevene zitti, andate a lavorare, pagate le tasse…


R- RIVOLUZIONE

Non sono stato mai così felice in vita mia

come nei primi otto giorni della rivoluzione.

Le rivoluzioni sono sferzate che si danno contro la storia. Sono brevi, durano anche pochi giorni. E dovrebbero coinvolgere non un paese, ma un intero continente. Altrimenti succede come in Spagna, dove i paesi vicini si allearono per soffocarla. La rivoluzione spagnola è stata sconfitta militarmente dal franchismo, ma forse è nella disfatta che risiede la sua forza… Perché se fosse risultata vittoriosa si sarebbe trasformata in dittatura, come è successo a Cuba, o in Cina, o in Russia. La rivoluzione si è persa, ma è rimasta viva nella memoria della gente.


S- SCUOLE

A undici anni mi sono trasferito a Barcellona per andare a vivere con mio zio. Lì ho frequentato per due anni una scuola razionalista, di quelle fondate da Ferrer y Guardia. Si applicava una metodologia moderna, si cercava di creare le condizioni per formare una coscienza rivoluzionaria. Due anni… Due anni di scuola in tutta la mia vita…


T- TEMPO

Abel ascolta la domanda che gli rivolge un compagno. E prima di rispondere esita. Lo guarda, come volendo misurare la distanza di tempo che lo separa da lui. L’impossibilità di farsi comprendere. Ma nonostante tutto parla, e la sua voce viene, lo sentiamo, da un mondo così diverso. Che inizia coi ricordi della terra di Almeria e i piedi scalzi e un piccolo alimentari del paese.

Questo non è il mio tempo. Apparteniamo a tempi diversi.

E’ impossibile farvi capire le cose che ho vissuto.


U- UTOPIA

Bisogna essere utopici. Perché non si può smettere di lottare, di andare sempre più lontano. Bisogna cercare sempre nuovi ideali negli ideali. La vita è lotta, se non lotti sei morto.


V- VITTORIA

Appoggio le spinte regionaliste in Spagna, perché se si formassero stati regionali sarebbero comunque stati più piccoli, e quindi più facili da abbattere. Ma se gli anarchici vincessero, si opporrebbero allo stato anarchico, per formare una nuova società. E una volta formata questa, si schiererebbero contro, per andare oltre, più lontano.


Z- …

Chumberas y alacranes è il titolo di un altro dei suoi libri. E sono forse questi, i fichi d’india e gli scorpioni, i punti cardinali della geografia di quest’uomo. Che si abbandona poco alla comodità di una sedia. Un incontrolado. Un animale di confini. Abel Paz ha l’ombra di chi ha tastato bene gli angoli della reclusione, lo sguardo di chi conosce gli orizzonti della terra riarsa.


(una vendicatrice delle umane sofferenze)

1 In “Cronaca appassionata della Columna de Hierro”, Ed. italiana a cura di Mario Frisetti, Autoproduzioni Fenix, Torino 2006.

Rassegna: Ormai è fatta